Chi ha paura del lupo cattivo? (editoriale rivista ERRE N° 25 www.erre.info)
di Franco Turigliatto
A novant’anni di distanza, la rivoluzione russa continua a suscitare incubi e inquietudini. Montagne di inchiostro sono state spese, a destra, come a sinistra, per esorcizzare quest’evento, seppellendolo sotto falsi miti e leggende, denigrazioni o mistificazioni. Tuttavia, la rivoluzione d’ottobre ha ancora molto da dire sull’oggi, a condizione di essere disponibili a ripensarla seriamente e fuori dagli schemi.
Nell’introduzione al suo celebre libro Il secolo breve, lo storico inglese Eric Hobsbawm osserva che, mentre per le generazioni passate la storia era un elemento costante di riferimento, oggi non è più così per i giovani: «La distruzione del passato, o meglio la distruzione dei meccanismi sociali che connettono l’esperienza dei contemporanei a quella delle generazioni precedenti, è uno dei fenomeni più tipici e insieme più strani degli ultimi anni del novecento. La maggior parte dei giovani alla fine del secolo è cresciuta in una sorta di presente permanente, nel quale manca ogni rapporto organico con il passato storico del tempo in cui essi vivono». La considerazione è in gran parte condivisibile e non c’è dubbio che la rottura di continuità con il passato abbia una grande rilevanza nelle difficoltà presenti a ricostruire un progetto alternativo alla barbarie del sistema capitalistico; ma credo che il fenomeno trovi una spiegazione e che l’atteggiamento dei giovani abbia caratteri complessi e anche comprensibili. Per le nuove generazioni il Novecento è un enigma, un mistero troppo difficile che si ha paura di affrontare e per il quale non si dispone degli strumenti per comprenderne la terribile dialettica, le guerre e le spaventose tragedie del secolo. Il peso delle sconfitte del movimento operaio preme sulla coscienza collettiva e dei singoli, sulla speranza e sulla credibilità di poter battere le leggi del capitalismo e forzare il corso della storia, cioè riproporre il tema della liberazione delle donne e degli uomini dallo sfruttamento, riaprendo il processo rivoluzionario. Dietro questa difficoltà ci sono i fatti materiali, i rapporti di forza tra le classi a loro volta alimentati dalla forza dell’ideologia borghese, rafforzata dai frutti avvelenati e duraturi della catastrofe del cosiddetto socialismo reale, della controrivoluzione burocratica che ha preso il nome di stalinismo. Il canto degli ideologhi e dei pennivendoli è noto: «Non ci provate, vedete, questo sistema sarà certo ingiusto, anche violento, ma se cercate di rovesciarlo, susciterete solo mostri ancora più grandi: Accontentatevi con le buone o con le cattive perché quello che vorreste avere, eguaglianza, giustizia, libertà e liberazione, non sono di questo mondo». Come palliativo alla insopportabilità della condizione umana e alle frantumazioni della globalizzazione capitalista tanti sacerdoti e tante chiese, offrono i loro servigi, apparati ben rodati nel corso dei millenni, l’oppio dei popoli viene versato a piene mani, come la costruzione delle barriere etniche, della chiusura in comunità statiche e la produzione di mostri e nemici. Il sacrosanto tabù della guerra, che aveva condizionato la maggior parte delle forze politiche del nostro continente dopo la tragedia del secondo conflitto mondiale, oggi viene infranto anche da partiti e associazioni che si definiscono di sinistra.
L’incubo delle classi dominanti
La storia dell’umanità è costellata da un’interminabile sequela di guerre, di oppressioni, di catastrofi, ma anche di avanzate sociali ed economiche e di ribellioni; processi anche lenti e molecolari che producono cambiamenti, che modificano le forze in campo. Ma un evento più di ogni altro pone all’ordine del giorno il cambiamento, la volontà degli sfruttati di non accettare più le leggi di chi sta in alto, il desiderio delle masse di essere protagoniste del loro destino: le rivoluzioni. Esorcizzate dai potenti, infangate dai chierici dei regimi, condannate all’inferno dai sacerdoti, esse restano tuttavia nella memoria dell’umanità e appaiono, difficilmente cancellabili nel comune sentire delle donne e degli uomini. Il termine rivoluzione continua così tanto ad essere concepito come legittima rivolta contro le ingiustizie, che le classi dominanti hanno dovuto impossessarsene (come anche del vocabolo riforma) per indicare un fenomeno del tutto opposto, cioè la negazione della rivoluzione, la conservazione dell’esistente sotto nuove e più feroci forme. Uno spettro dunque si aggira in tutto il mondo tra le classi dominanti, nella borghesia, anzi due spettri, la rivoluzione francese e quella russa. Ogni anniversario viene utilizzato per cercare di seppellire nel passato e nella coscienza pubblica questi due avvenimenti che segnano la storia contemporanea. La borghesia ha paura della stessa rivoluzione francese, che pure aprì la strada al suo pieno potere economico e politico; tanto più continua a temere la rivoluzione del ’17 e le sue implicazioni perché è stata una rivoluzione vittoriosa. Su altre rivoluzioni gli storici e gli ideologici della borghesia sono meno attenti, e meno interessati; possono anche essere generosi nel giudizio, perchè sconfitte: “onore ai vinti”, senza per altro calcare la mano sulle nefandezze e atrocità commesse dai dominanti per sconfiggere le classi oppresse ribellatesi. Possiamo essere certi che, nonostante la distanza delle giovani generazioni dalla rivoluzione del ’17, evento lontano e in un lontano paese dove ormai il capitalismo è stato restaurato, per il novantesimo anniversario verranno scritte pagine e pagine per spiegare come sia stata una follia, una mostruosa tragedia, da cui discendono tutte le tragedie del secolo; montagne di logore menzogne e di luoghi comuni saranno ancora rovesciati sui suoi attori e protagonisti. Ma perché c’è ancora bisogno di ciò, se il “libero mercato” trionfa ovunque? Perché questo bisogno infinito di “convincere” che l’evento è il male assoluto, la tentazione diabolica da allontanare per sempre. Le classi dominanti sono coscienti che l’umanità ha dentro di sé la ripulsa dell’ingiustizia, che può subirla, sottomettersi anche per lunghi periodi, ma che essa non potrà mai essere totalmente accettata: lo sviluppo della storia produrrà nuove convulsioni e anche le condizioni di nuove ribellioni; prevenire il fenomeno convincendo che questa strada non può in nessun modo essere battuta è uno degli strumenti con cui si misura l’egemonia ideologica della classe dominante. Ma l’ottobre non è solo una ribellione, è un prolungato e articolato movimento di massa, sempre più cosciente e determinato, un movimento operaio che riesce a darsi una forma altissima di organizzazione democratica e di partecipazione e che per questa via favorisce l’organizzazione delle masse contadine e dei soldati e trova la sua saldatura con una forza politica rivoluzionaria. È un movimento generale che costruisce gli strumenti per organizzare il suo potere. Non solo protesta o ribellione, ma volontà di prendere in mano il proprio destino, di definire le scelte economiche e sociali: prendere il potere per decidere della propria sorte. Per far questo ha bisogno di altre forme organizzative, di altre forme di statualità, di cacciare la borghesia di sviluppare il controllo operaio e di impadronirsi degli strumenti economici. L’Ottobre resta l’incubo più grande, il film dell’orrore (The nightmare) anche per le classi dominanti di oggi; ricorda quel che non hanno potuto impedire, quello che è avvenuto e che ha incitato tanti altri lavoratori, interi popoli a provarci. Sanno bene che proprio perché è avvenuto potrebbe ancora accadere, tanto più se volgono lo sguardo verso i processi sociali in America Latina. Non potendo essere cancellato dalla memoria, deve diventare il buco nero della storia.
Il lascito dell’Ottobre
Sono quattro gli elementi di fondo di quella rivoluzione che credo sia utile ripensare come strumenti validi sul piano del metodo e dei contenuti. In primo luogo la dinamica di massa, la straordinaria forza di un movimento che parte dalla classe operaia, già concentrata in grande aziende, che coinvolge gli strati più larghi della società, lo sciopero generale come strumento di raccolta delle forze, di spiegamento di tutte l’energie potenziali, capace di rovesciare in pochi giorni lo zarismo e di paralizzare l’avversario di classe. E le forme organizzative di democrazia diretta in cui si esprime questo slancio rivoluzionario, che scavalca ripetutamente tutti i suoi partiti e si manifesta dal febbraio all’ottobre. Una classe lavoratrice che agisce fuori dagli schemi che i dirigenti socialisti e socialrivoluzionari avrebbero voluto assegnarle secondo una rigida interpretazione della lotta di classe e della storia. Sulla base di questa nella Russia, paese ancora semifeudale, all’ordine del giorno non avrebbe potuto essere che la rivoluzione democratica, la cacciata dell’assolutismo e l’apertura di una fase di sviluppo del capitalismo; la classe operaia avrebbe dovuto autocontenersi, lasciando il potere alla borghesia e al governo provvisorio. Ma una classe e un movimento di tale forza ha in sé le proprie dinamiche e i propri obbiettivi, non può essere contenuto dentro lo schema della rivoluzione a tappe: chiede che sia posto fine alla guerra, che i contadini abbiano la terra, che siano assolte le istanze economiche per cui lotta, una nuova politica economica, il controllo operaio sulla produzione. Per questa via diretta la rivoluzione allarga i suoi compiti, combina le rivendicazioni democratiche con quelle economiche e sociali, rivendica le sue finalità anticapitaliste e socialiste. In altri termini, acquista una dinamica permanente. E tanto meno si ferma dopo la sconfitta del tentativo reazionario di Kornilov che svela che nel paese sono possibili solo due soluzioni, la rivoluzione proletaria o la controrivoluzione delle vecchie classi dominanti. I dirigenti menscevichi prigionieri delle loro teorie e dell’alleanza con la borghesia non possono interpretare questa dinamica e rapidamente perdono l’egemonia a vantaggio di un altro partito che sa legarsi a questa straordinario movimento e attirare a sé l’avanguardia operaia, che ne comprende le profonde aspirazioni, che correggere i vecchi schemi strategici individuando la strada perché i lavoratori risolvano a loro favore lo scontro tra i due poteri esistenti e tutto il potere venga preso nelle mani dei soviet. Possiamo interrogarci molto sull’evoluzione del partito bolscevico e più in generale sul ruolo dei partiti della classe operaia nel corso del Novecento. Tuttavia se compariamo gli avvenimenti del ’17 ai tanti episodi del secolo scorso in cui i partiti si sono sovrapposti anche in forme repressive alle istanze e alle lotte dei lavoratori per difendere i loro interessi di apparato e la collaborazione di classe con la borghesia, a partire da quanto ha fatto la socialdemocrazia tedesca in quegli stessi anni, non si può non essere ammirati di come il partito bolscevico abbia saputo essere coerente con il movimento delle masse. Il terzo elemento di fondo di quella rivoluzione sta nel suo slancio internazionalista, non solo perché al suo interno erano presenti militanti provenienti da tanti paese, ma perché quella rivoluzione fu concepita fin dall’inizio come una parte della lotta più generale del proletariato, come un distaccamento che era giunto prima alla vittoria, ma che avrebbe potuto difenderla e realizzarla solo se la classe operaia di altri paesi, ben più sviluppati, fosse stata capace a sua volta di rovesciare l’ordine borghese, creando così le condizioni materiali di una transizione al socialismo. La costruzione di una nuova internazionale dopo la tragedia della Seconda internazionale che nei congressi aveva proposto alla classe operaia di rispondere con lo sciopero generale al conflitto che si stava preparando, salvo poi marciare con i suoi partiti a fianco delle rispettive borghesie, aveva dunque un forte significato antimilitarista e rivoluzionario: l’unità delle classi popolari e dei popoli contro la logica del profitto, della guerra e dell’imperialismo. Difficile non pensare che in un’epoca di globalizzazione capitalista e di contraddizioni senza precedenti questo messaggio non sia di attualità. Il quarto elemento, consiste nel fatto che la rivoluzione si pensò come portatrice di una rivoluzione culturale complessiva, di liberazione anche per quanto riguarda i rapporti personali affettivi e sessuali, a partire dalle donne e dai giovani. Poté farlo nelle condizioni politiche e culturali che si erano fino ad allora prodotte, ma la sua arditezza non può che stupire, date le terrificante condizioni materiali in cui fu costretta ad agire.
La guerra civile
Credo che esista una costante elusione da parte dei detrattori della rivoluzione, ma anche da parte di molti esponenti di sinistra, del ruolo e del significato della guerra civile. Il tentativo di stroncare quella rivoluzione fu gigantesco, non solo attraverso le forze reazionarie autoctone, ma con l’intervento militare delle potenze occidentali. Pochi credevano alla possibilità di sopravvivenza del potere dei soviet. Assistiamo a una costante della storia. Ogni volta che le classi oppresse si ribellano, l’intervento armato e la repressione della borghesia raggiunge livelli di violenza impensabili: dalla Comune di Parigi alla Spagna della guerra civile, dall’Indonesia del ’65 al Cile e al Vietnam martoriato dalle bombe Usa. Anche quando le classi dominanti capiscono di aver perso una partita, continuano a colpire e reprimere per distruggere le stesse basi materiali su cui sarebbe possibile costruire una nuova sociètà. Non a caso parlarono di far ritornare l’Indocina all’età della pietra. Così gli Usa non solo hanno imposto per lunghi anni governi fantoccio e il dominio imperialista, ma hanno condizionato l’evoluzione sociale ed economica successiva. Difficile costruire una reale transizione al socialismo in un territorio e in una società devastati. È quanto successe in Russa dopo il ’17. La rivoluzione all’inizio fu largamente “gentile”: liberò sulla parola gli avversari arrestati, abolì immediatamente la pena di morte, festeggiò per molti giorni una liberazione da secoli di oppressione, voleva costruire un nuovo mondo e una nuova società che cancellasse la violenza dello zarismo e della guerra che da tre anni insanguinava i campi d’Europa. Ben presto la violenza reazionaria, obbligò gli operai e i contadini a nuove terribili esperienze, a subire violenze senza fine, a ricostruire dal nulla quell’esercito che si era sciolto per il rifiuto della guerra, a reagire con disperazione e con violenza per sopravvivere, seguendo le legge fatali della guerra. Molti autori hanno evidenziato come la guerra civile costituì un enorme balzo all’indietro, con un paese sfinito e distrutto, con gran parte della classe operaia scomparsa, gli insediamenti produttivi industriali ridotti al minimo e una situazione drammatica nelle campagne. Alla democrazia dei soviet si erano sostituiti l’autorità e il comando dall’alto. È impensabile che eventi di questo genere non cambino anche la psicologia umana e politica dei singoli e quella collettiva. È ben noto che le guerre producono assuefazione alla violenza, indifferenza rispetto alla vita e alla morte. E quando la guerra finisce, a questa assuefazione si può accompagnare non solo la spinta dall’alto di quelli che hanno preso l’abitudine di comandare, ma anche una spinta dal basso che chiede ordine, tranquillità, affidamento. Chi meglio della burocrazia può interpretare questi fenomeni. D. Bensaïd osserva che «Il peso terribile delle circostanze e l’assenza di una cultura democratica cumulano i loro effetti. Non c’è alcun dubbio che la confusione presente, dalla presa del potere in poi, tra lo stato, il partito e la classe operaia, in nome del deperimento rapido dello stato, dato per scontato, e la scomparsa delle contraddizioni in seno al popolo favoriscono la statizzazione della società e non la socializzazione delle funzioni pubbliche». Moshe Lewin il grande storico della società sovietica arriva ad affermare che lo Stato che risorge in Russia agli inizi degli anni Venti «si forma sulla base di uno sviluppo sociale regressivo».
La lettura idealista
Comprendere questi fenomeni significa anche fare piazza pulita di tutte quelle teorie che ritengono che il processo involutivo della rivoluzione sovietica fosse ineluttabile, avesse cioè il suo germe nelle concezioni stesse del partito bolscevico e di Lenin. Questa concezione non è solo degli storici conservatori o degli ideologi della borghesia, ma in diversa misura e con diverse varianti è oggi largamente sostenuta da molte forze e dirigenti della sinistra. Questa lettura per coloro che la propongono a due vantaggi. A chi ha assunto nel passato posizioni direttamente staliniste, o anche a chi ne ha condiviso qualche scelta politica permette di non fare un vero bilancio compreso del ruolo che hanno avuto nella sinistra. Per tutti gli altri e per coloro che non sono stati nel cosiddetto “movimento comunista”, permette di non misurarsi con l’analisi e l’interpretazione della controrivoluzione sociale prodottasi. Le tendenze alla burocratizzazione sono proprie di ogni società e coloro che prospettano un mondo alternativo al capitalismo fanno bene a riflettere su questo problema ogni giorno e sui “pericoli professionali del potere”, ma in quelle condizioni date in Unione sovietica la burocratizzazione ha potuto prendere una forma estrema, una dimensione tragica che va sotto il nome dello stalinismo. Non si tratta di un momento, di un evento, ma di un processo che passa attraverso scontri, lotte, bivi politici e sociali, che vede la sua gestazione nella guerra civile, che si sviluppa attraverso duri scontri negli anni venti e che si afferma negli anni trenta, processo che comprende la distruzione dello stesso partito che aveva fatto la rivoluzione.
I tempi sfasati dei vecchi bolscevichi
Uno degli elementi che spianò la strada alla burocrazia, cioè al congiungimento tra l’eredità reazionaria del vecchio regime e l’autopromozione sociale dei nuovi dirigenti, fu la difficoltà dei vecchi bolscevichi a capire quel che stava avvenendo. Essi pensavano e ragionavano secondo un vecchio schema per cui il pericolo maggiore presente sarebbe stata la restaurazione capitalista. Concentrati sul pericolo principale, non capirono che la rivoluzione poteva essere perduta da un pericolo “secondario” da un processo e da forze endogene interne. I dirigenti bolscevichi protagonisti dell’Ottobre acquisirono coscienza, per altro parziale, di quello che si stava producendo, in tempi diversi Moshe Lewin, nel suo ultimo libro Il secolo sovietico, frutto delle ricerche condotte dopo l’apertura degli archivi, titola un capitolo “Stalin, sa cosa vuole”, sottolineando tutte le incertezze degli altri. In realtà il primo a capire la dinamica degli avvenimenti, fu Lenin stesso, ma la malattia non gli permetterà di contrastare quanto stava avvenendo. Lewin insiste sul fatto che la battaglia che Lenin alla fine del ’22 apre contro Stalin, chiedendone la rimozione, non è solo una battaglia specifica, pur importantissima, sulla questione delle nazionalità, ma una battaglia a tutto campo che riguarda l’insieme delle scelte e il funzionamento della macchina sovietica. Solo qualche tempo dopo, nel ’23, Trotskij troverà la forza per aprire la battaglia contro la burocrazia, poi nel ’26-27 anche Zinoviev e Kamenev cercheranno di reagire, più tardi ancora Bucharin e infine alcuni alleati dello stesso Stalin. Il segretario generale riuscì così a superare tutti i momenti di crisi e ad affermare pienamente il dominio dell’apparato e il suo personale. Ma, a differenza di quanto molti ritengono, la partita negli anni Venti era ancora aperta e questo si manifestò attraverso scontri politici e sociali su cui pesava drammaticamente la sconfitta della rivoluzione tedesca nel ’23 e poi di quella cinese del ’27. La storia successiva è nota: le scelte del gruppo dirigente sovietico che vanno sotto il nome di terzo periodo favoriranno l’ascesa al potere di Hitler in Germania mentre le grandi purghe metteranno il sigillo sulla controrivoluzione burocratica. Sarà, per usare le parole di Serge, mezzanotte nel secolo.
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