Il governo israeliano e l’Autorità nazionale palestinese (Anp) presto torneranno a incontrarsi sotto supervisione americana. Cosa s’aspetta dal summit di Annapolis?
I colloqui non produrranno alcun passo in avanti. Abu Mazen non ha l’appoggio della maggioranza della popolazione palestinese e Ehud Olmert è il primo ministro più debole che abbiamo da molti anni a questa parte. Due leader così impopolari potranno, al massimo, fare una dichiarazione congiunta.
Olmert segue la stessa politica di Sharon?
Tra i due non c’è niente in comune. Sharon aveva una strategia di lungo periodo: la colonizzazione di tutta la Palestina e nessuna trattativa, perché il negoziato avrebbe implicato la necessità di fissare un confine tra Israele e i Territori occupati. E lui non voleva frontiere, almeno per i prossimi 50 anni. Quella di Olmert è una strategia che mira alla sua sopravvivenza, come leader politico e nei confronti della giustizia, dalla quale è sottoposto a quattro procedimenti.
L’anno prossimo Israele celebrerà 60 anni d’indipendenza. Dove crede stia andando lo Stato ebraico?
Da nessuna parte. Israele è uno degli esempi più estremi del mondo di cosa possa fare il neoliberismo. Alla fine della guerra del Libano, l’anno scorso, uno dei migliori giornalisti di Ha’aretz, Daniel Ben-Simon, scrisse un articolo dal titolo «Non c’è più stato». Infatti abbiamo avuto una privatizzazione completa dello stato e della società. Abbiamo un’economia florida come mai prima (con sacche di povertà come in tutte le economie neoliberiste), un esercito. Ma non abbiamo nessun progetto nazionale, né una leadership politica che ci guidi da qualche parte.
Israele ha ancora bisogno di forza lavoro palestinese?
No, come molte economie neoliberiste, quella israeliana non è basata sullo sfruttamento di forza lavoro ma su speculazioni finanziarie, investimenti in tutto il mondo: Israele è un paese imperialista nel vecchio senso della parola. Sono stato recentemente in India ed è incredibile quanto, in una città come Nuova Dehli, siano presenti capitali israeliani. Il governo esiste in quanto istituzione vuota, mentre i palestinesi sono spariti dall’agenda dell’opinione pubblica. Non esistono: sono al di là del muro, non li vedi. Lavoratori palestinesi non ce ne sono più, eccetto a Gerusalemme. Negli anni scorsi, alle cene degli israeliani ben educati, il primo argomento di conversazione erano loro. Ora si parla dei palestinesi solo in mancanza di altri argomenti di conversazione, dopo aver discusso di corruzione, scandali sessuali, sport. Vengono percepiti come un eczema: niente di pericoloso, non è un problema, a volte ti gratti, ci metti una crema ma non vai in ospedale. Puoi conviverci, anche se qualche volta ti può dare un po’ fastidio.
L’etnia influenza la cittadinanza e i diritti civili?
Israele è un esempio estremo di «stato etnico». Definendo se stesso come «stato degli ebrei» mette l’etnia al centro della definizione di cittadinanza. Israele si definisce anche come «stato ebraico democratico», ma c’è una tensione interna tra questi due concetti: uno stato democratico è uno stato di tutti i suoi cittadini, indipendentemente dall’etnia. I palestinesi (il 20% della popolazione, ndr) hanno diritti di cittadinanza ma non eguaglianza, per quanto riguarda, ad esempio, l’accesso alla terra. Due anni fa è stata approvata una norma che stabilisce che un cittadino israeliano non ebreo, se sposa una persona non ebrea, non può vivere nel Paese con quest’ultima. Una legge unica al mondo, in base alla quale un cittadino deve scegliere tra vivere con il proprio sposo/a o rimanere nel Paese.
C’è stata un’era molto promettente, negli anni ’80-’90, in cui il sionismo è entrato in crisi. Tutto quel periodo, definito «post sionismo», mise in dubbio una serie di dogmi. «Ok, il sionismo è stato importante per la fondazione – si diceva -, ma ora dovremmo essere uno stato come gli altri». Ci fu una de-ideologizzazione, un tentativo di «de-sionizzazione». Alcuni membri della Knesset misero in dubbio la necessità della legge del ritorno, che attribuisce diritto di cittadinanza in Israele a ogni ebreo della diaspora che si stabilisca nello Stato. «Forse – si pensò – dobbiamo essere lo stato degli israeliani non degli ebrei». In questa tensione tra stato israeliano e stato ebraico perfino la Corte suprema stabilì che sarebbe stato necessario un bilanciamento tra i due termini. Con una serie di sentenze affermò che il nostro Stato era abbastanza forte per essere più democratico e meno ebraico. Nel 2000 questo processo si è interrotto. A fermarlo, il processo di ricolonizzazione, parte di uno scontro di civiltà globale. Israele è tornato indietro, in tutti i campi (politico, militare, culturale, intellettuale) al «vecchio sionismo»: pensiamo di avere il mondo e l’islam contro, di essere in guerra.
La seconda intifada e l’11 settembre hanno contribuito a questa situazione?
Non esiste una seconda intifada, questa è una grande mistificazione: l’intifada è stato l’ultimo movimento anti coloniale di massa del XX secolo. Quello che la gente chiama «seconda intifada» non è stata una rivolta palestinese, ma un piano israeliano per riprendere dai palestinesi ciò che era stato dato a Yasser Arafat e all’Olp in termini di sovranità, diritti. Il 2000 segna, a livello globale, l’inizio della messa in atto della strategia di ricolonizzazione dei neoconservatori: riprendersi ciò che avevano perso a causa delle rivoluzioni anti-coloniali degli anni ’50 e ’60 e dei movimenti sociali di massa in Europa. La ricolonizzazione della Cisgiordania e di Gaza è stata parte di questo fenomeno: la terza offensiva sionista per riprendersi ciò che era stato perso politicamente militarmente nel corso degli anni ’80 e ’90.
Non solo casi come quelli di Iraq e Afghanistan, dove siamo tornati al «colonialismo classico»: prendere il petrolio e il controllo diretto, anche se attraverso una marionetta locale. Ma anche a livello dei diritti delle donne, diritti sociali, civili, nei paesi sviluppati. La grande intuizione di Sharon fu capire che il suo sogno (riprendere il controllo diretto), che appariva contro il corso della storia, stava in realtà per diventare di nuovo «la regola del gioco».
Perché nessuno fa pressioni su Israele affinché tratti la pace coi palestinesi?
Perché il mondo è cambiato: abbiamo avuto finora una divisione netta con una strategia israelo-statunitense molto offensiva e l’Europa che ne elaborava una alternativa, di normalizzazione, pacificazione. In questo quadro (anni ’80-’90) i palestinesi erano appoggiati da chi voleva risolvere le crisi. Ora abbiamo un riallineamento totale dell’Europa nei confronti delle politiche aggressive e di ricolonizzazione degli Usa.
Il cosiddetto «campo della pace» ha una ruota piccola e una grande. La prima, più radicale, inizia a muoversi e trascina la maggiore, Peace now, in grado di mobilitare centinaia di migliaia di persone e avere un impatto sulle decisioni politiche. È accaduto così nella prima guerra del Libano, durante la prima intifada, ma non oggi. La ruota piccola ora funziona: siamo tra le 7 e le 10mila persone, mobilitate permanentemente. Ma non c’è più la ruota grande. E il nostro ruolo, importante in termini morali, è politicamente irrilevante. E così durante l’ultima guerra del Libano non abbiamo avuto nessuna dimostrazione di massa. Piuttosto che addormentata, temo che la ruota grande sia «morta», intrappolata dalla paura di rappresentare la prima linea dello «scontro di civiltà».