Ecuador: gli USA cacciati dalla base di Manta

L'Ecuador di Rafael Correa sta per segnare un altro punto nel braccio di ferro con il cosiddetto primo mondo. Dal 1999, la base di Manta è usata dagli Stati Uniti, che la considerano punto strategico per il controllo della regione. Ma fra poco, quell'accordo scadrà e il governo non ha nessuna intenzione di rinnovarlo. A spiegarci come la Casa Bianca abbia reagito a questa presa di posizione del piccolo paese sudamericano è Ana Esther Cecena, ricercatrice messicana esperta in materia.


I fatti. “L'accordo sulla base di Manta con gli Stati Uniti è decennale, dunque scadrà nel 2009 – racconta – Tutto andava a gonfie vele per Washingotn fino all'arrivo di Correa alla presidenza dell'Ecuador, che ha coinciso con una forte pressione del movimento contro la guerra, di quello contro le basi militari e della campagna per la smilitarizzazione delle Americhe. Questi hanno cercato di convincere il presidente a non ratificare un nuovo accordo con gli Usa e lui li ha ascoltati. Così,  per la prima volta nella storia latinoamericana, un presidente ha detto no a una collaborazione militare con gli Stati Uniti. E i militari nordamericani non potranno fare altro che andarsene da Manta, uscendo definitivamente dal territorio ecuadoriano”.

La reazione. “Adesso è però importante vedere quale sia il progetto Usa per sostituire Manta, dato che quella base ha una posizione molto strategica – racconta Cecena – Da lì controllano una grande fetta del territorio. Perderla, dunque, implica due possibilità: o rinunciare a quel potere di supervisione o conquistare altre posizioni che permettano loro di coprire almeno il medesimo raggio di azione, se non di più”. E chiaramente gli Usa hanno puntato sulla seconda opzione. “Quando gli Stati Uniti decisero di  trasferirsi a Manta – riprende l'esperta messicana – fu perché dovettero ritirarsi da Panama. Ma per supplire a tale perdita crearono un triangolo che moltiplicò la loro influenza. Costruirono la base Compalapa in Salvador, la Reina Beatriz in Aruba, isola dei Caraibi a nord del Venezuela, la Hato Rey in Curacao e, appunto, Manta in Ecuador. Quindi, lasciarono, sì, un luogo strategico, ma solo fisicamente, dato che continuarono a controllarlo spostandosi poco più in là e conquistando, in più, molte altre postazioni, col risultato di ampliare la loro influenza sulla regione”. E, secondo Esther Cecena, con Manta sta succedendo qualcosa di  molto simile. Per  rimediare alla perdita della base ecuadoriana c'è già il progetto di costruirne una in Perù e un'altra in Colombia, col risultato di ampliamento del loro raggio di azione. “Se in Colombia non vanno che a rafforzare una presenza già massiccia, quella del Perù è una novità importante. La Casa Bianca – precisa la studiosa – è ultimamente molto preoccupata per quanto sta avvenendo in quell'area. Quella del Cono Sud è una zona dove guadagnare posizione è costato molta fatica. E adesso, questa sorta di fuoco rosso incrociato fra Morales in Bolivia, Correa e il venezuelano Chavez complica molto le cose. Per questo mettere piede in Perù è fondamentale. Da un lato garantisce la loro presenza nello stesso paese andino, da sempre molto inquieto; e dall'altro permette loro di pressare l'Ecuador e di tenersi a due passi dalla Bolivia. Quella da Manta è dunque contemporaneamente un'uscita e un riposizionamento”.
 

Uscita e riposizionamento. Ma Ana Esther Cecena tiene a precisare che la presa di posizione inedita di Correa non perde, comunque, di importanza. “Il no dell'Ecuador segna una sconfitta storica degli Stati Uniti, che di fatto vengono cacciati fuori – spiega -. E questo è importantissimo. La reazione che sta avendo Washington non sminuisce la politica di Correa, bensì conferma quante risorse abbiano gli Usa, dimostra come ancora possano contare su paesi alleati che lo lasciano entrare, fare e disfare. Il Perù, per esempio, in cambio di aiuti umanitari, ha permesso agli Stati Uniti non solo di iniziare a costruire la base, ma anche di stanziarsi nel nord del paese dove avvengono, da due anni, esercitazioni di ogni genere. Si tratta di vere e proprie ricognizioni militari sul territorio, molto meticolose. E non solo: parlano con la gente, si inseriscono nella società e magari, capita pure che costruiscono anche qualche scuola o centro medico, dove tutti vengono curati con gli analgesici. Intanto, occupano un'area fondamentale nello scacchiere geopolitico: non dimentichiamo l'importanza strategica del nord del Perù e le sue risorse naturali. Stando là si ha accesso all'area amazzonica e quindi a tutte le sue risorse. È un modo per occupare il territorio”.

Paesi amici. Attualmente in America Latina le basi più importanti, oltre a Manta sono otto: 5 in Colombia, ossia due al nord-est, al confine con il Venezuela, due a sud, al confine con l'Ecuador, e una nei pressi di Panama, nel Choco, area indigena e di afrodiscendenti, dove si registra un numero impressionante di sfollati; una in Honduras, una in Salvador, e quella di Guantanamo. Ma Ester elenca anche Haiti, “che in qualche modo è un paese occupato, che si può paragonare a una sorta di base militare di controllo regionale”. Mentre, nella tanto agognata Triple Frontera, Brasile-Paraguay-Argentina, ancora non hanno potuto costruire una vera e propria base, grazie alle reticenze argentine. “Ma in compenso – sottolinea Cecena – hanno costruito l'ufficio della Cia e della Dea e hanno stretto un accordo bilaterale con il Paraguay che dà alle truppe nordamericane la totale immunità. C'è anche un accordo per ripristinare una vera e propria base militare in Paraguay, ma è stato sospeso per le proteste del movimento pacifista, arrivate proprio in periodo elettorale. Ugualmente, la presenza Usa nel paese latinoamericano si fa sentire con l'occupazione di un areoporto immenso che permette l'atterraggio degli aerei Galaxy, quelli che trasportano squadroni, carrarmati e via dicendo. E comunque – conclude – in tutti i luoghi più importanti per le risorse energetiche e ambientali ci sono truppe Usa. Nell'acquifero Guarani, per esempio, ci sono le basi operative della Dea. E così è per ogni zona calda del continente”.
Stella Spinelli

22/10/2007 www.peacereporter.net

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