L’Avana si sta aprendo e Washington lo sa

Impantanato in Iraq e in Afghanistan, ossessionato dalla crescita dell'Iran come potenza regionale (conseguenza diretta delle guerre nei summenzionati paesi), il dipartimento di stato americano si è accorto che il Sudamerica è in subbuglio. Il suo ultimo grande intervento nella regione è stato il rude tentativo di rovesciare il governo democraticamente eletto in Venezuela. Era il 2002, un anno prima dell'avventura in Iraq. Da allora un'onda di unità bolivariana ha spazzato il continente, vincendo in Bolivia e in Ecuador, diffondendosi in Perù e in Paraguay e soprattutto rompendo il lungo isolamento di Cuba. Ciò ha causato panico a Miami.

La piccola isola che ha sfidato interventi, minacce e blocchi per più di mezzo secolo rimane un'ossessione imperiale. Washington ha atteso la morte di Fidel per poter cercare o retribuire la defezione di pezzi dell'apparato militare e poliziesco (e senza dubbio anche di scelti aparatchikni di partito). L'ultimo discorso di Bush è un segno di panico. Erano così certi di raggiungere l'obiettivo con una vagonata di dollari, da non aver studiato molto altro negli ultimi anni.
Ma ieri ci è stato detto, senza ombra di ironia, che Raul Castro è inaccettabile perché è il fratello di Fidel e che non è questa la transizione che Washington aveva in mente. E' gustoso che W., di cui sono note le connessioni familiari, non menzioni il fatto che nel caso la signora Clinton sia nominata ed eletta due sole famiglie saranno state al potere per oltre due decenni.
Ciò che ha preoccupato i Bush brothers e la loro clientela in Florida è il fatto che Raul Castro abbia incoraggiato un dibattito aperto sul futuro dell'isola. La cosa non è popolare tra gli aparatchik, ma indubbiamente ha avuto un impatto.
La censura di stato non è solo profondamente impopolare ma ha azzoppato il pensiero creativo nell'isola, e la nuova apertura ha fatto emergere le vecchie contraddizioni. I film-maker cubani ad esempio stanno sfidando pubblicamente i burocrati. Pavel Giroud, un conosciuto regista, spiega: «Qui la censura è esattamente come altrove, tranne per il fatto che Cuba è un'osservata speciale. Network e pubblicazioni in tutto il mondo hanno linee editoriali e tutto ciò che non le rispetta viene tagliato. Negli Stati uniti la Hbo ha rifiutato di trasmettere il documentario di Oliver Stone su Fidel Castro perché non aveva il focus richiesto, e hanno insistito per un'altra intervista con Fidel. In altre parole, ciò che Stone aveva da dire non importava, ciò che importava è ciò che il network voleva mostrare. Personalmente, preferisco che un mio lavoro non venga trasmesso piuttosto che mi chiedano di cambiarlo o tagliarlo. Delle spiegazioni non mi importa nulla, non ci sarà mai una ragione buona abbastanza per chi viene zittito. La banalità è favorita dappertutto, basta accendere qualsiasi canale musicale del mondo: le star machiste del reggaeton fanno le stesse sculettate, i cantanti «in» eseguono lo stesso gesto seduttivo, le stesse riprese al rallentatore di scene d'amore al tramonto… Non siamo noi qui a Cuba i principali produttori di questa roba. E lo stesso accade in politica. Il broadcaster sa che un video pieno di apprezzamenti al sistema non causerà alcun problema, i creativi sanno che andranno in tv molto più in fretta se scrivono una canzone, producono un film o dipingono un quadro che apprezza una figura politica».
Che il sistema cubano abbia bisogno di riforme è cosa largamente accettata nel paese. Mi è stato detto spesso che la decisione «impostaci dall'embargo» di seguire il vecchio modello sovietico «non è stata benefica». Adesso c'è una scelta, è tra Washington e Caracas. E mentre un leggero strato di elite cubana sarà tentato dai dollari, la maggior parte dei cubani preferiranno un modello diverso. Non vogliono vedere la fine del loro sistema sanitario o educativo, ma vogliono più diversità politica ed economica, anche se il modello del Grande Fratello sotto la cui ombra vivono non offre esattamente questa scelta.
Tariq Ali (il manifesto 25/10/2007)
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